Le storie dei tornanti sono cariche di emozioni e sentimenti profondi perché colpiscono dritto al cuore, provengono da sentimenti viscerali, bisogni incondizionati di rivedere determinati panorami, ovunque essi siano.
Tony è un ritornante seriale, forse sarebbe meglio chiamarlo Antonio di Roseto Valfortore, un paesino sui Monti Dauni in provincia di Foggia con poco più di mille abitanti e con una comunità di emigrati che solo in Canada ha più di 10.000 oriundi, una città nella città, una cultura nella cultura che ogni anno crea un flusso costante di ritornanti verso l’origine. Una sorta di migrazione che ritorna sempre verso il punto di partenza.
Giunti a prima mattina, il paesino sembra ancora assonnato e avvolto in una patina di calma. L’aria è molto fresca e la luce dolce ovatta la nostra scalata. Qualche vecchietto passeggia lento per le strade deserte, rilassato sembra avere la testa da un’altra parte, sembra felice di ritrovare – come ogni mattina – i suoi angoli di quiete domestica, il suo paese, le sue strade. Piccoli bar, spogli negozietti si alternano sulla via principale, in cui i muri di pietra e i segnali sbiaditi evocano una storia antica, parlano di epoche in cui il borgo era vivo, pullulava di vita e di persone.
Il racconto di Antonio arriva per caso, ci cattura nel pomeriggio.
“Siamo due fratelli e quando decisi di emigrare avevo solo 17 anni e mio fratello era già partito per il Canada. Adesso torno a Roseto ogni anno e per me non esistono altre vacanze che queste, tornare nel mio paese di origine. C’è solo una regola che ho deciso di rispettare sempre: quando parto non guardo mai indietro. Alla mia prima partenza dicevo a me stesso, dopo aver superato i controlli – non ti girare, non ti girare – ma alla fine l’ho fatto e ho visto mio padre che piangeva con il braccio sulla fronte, mia madre piangeva sempre, ma mio padre mai, da allora non mi volto più, quell’attimo è rimasto impresso nella mia memoria e lascia dentro di me una tristezza infinita”.
Antonio nel raccontarlo quasi si commuove e colpisce forte anche noi, gli occhi si riempiono di emozione, la goccia quasi scende e rende tutta l’atmosfera sospesa, ferma e romanticamente nostalgica. Abbandonare le proprie radici lascia dei segni indelebili in tutto il nucleo familiare, ma tornare è un’esigenza primaria, guardare indietro porta con la sofferenza del distacco e come il mito di Orfeo ed Euridice può indurre disperazione.
Tony continua raccontando come il suo primo anno trascorso in Canada sia stato fondamentale. “Ero solo e partivo da zero, come spesso accade quando sei in difficoltà riesci a trovare le migliori soluzioni grazie ad una forza di volontà e alla libertà di chi si è affrancato da quella che definisco la targa che ognuno di noi porta sulle spalle.
Una volta il parroco del paese disse che chi vive a Roseto ha come una targa in cui c’è scritta la propria condizione sociale da cui non puoi muoverti, un blocco senza senso che diventa pesante come piombo, solo per convenzione sociale.
In realtà quando siamo fuori dal nostro paese ci liberiamo di questo peso e voliamo nel lavoro come nella società. Per fortuna in Canada ho trovato infinite possibilità che mi hanno fatto crescere da tutti i punti di vista. Poi ho trovato una donna di origini rosetane con cui ho condiviso la vita.
Il ricordo di casa era ancora incredibilmente vivo in tutti gli emigrati, stringerci tra noi un richiamo irresistibile”.
Questa è solo una di tante narrazioni che nascono dai ricordi sbiaditi di centinaia e centinaia di persone, che con affetto smisurato pensano di tanto in tanto alla terra natia.
Enormi flussi di persone partite per non tornare (ma che vorrebbero farlo) alla ricerca di un mondo migliore, più accomodante, in fuga spesso da arretratezze culturali e situazioni di degrado.
Scegliere di cambiare, lasciarsi ispirare da ciò che riteniamo più “evoluto”, a nostro avviso, è sacrosanto e ciò conduce alla crescita dell’individuo. Il punto è restare in pace con sé stessi e capire se vale la pena il ritorno, se questo rientro potrebbe appianare i rapporti con le proprie radici e con la propria anima.
Se ciò si palesa è lì che la Tornanza deve fluire senza intoppi, deve essere favorita e perpetrata perché porti benessere a chi ritorna, ma soprattutto che si materializzi la contaminazione “dell’evoluto” che rientra e che diffonde ciò che ha imparato stando fuori.
Si potrebbe restituire ai borghi dimenticati italiani, al Sud, l’antica dignità di soggetto del pensiero, interrompere una sequenza in cui questi territori sono stati pensati da altri [1], in prospettiva di imitazione (anni dopo), di opere non ancora avvenute, in eterno e fallimentare inseguimento di qualcosa che non li riguarda.
Nessuno sviluppo può avvenire sulla base del disprezzo, del ripiego funzionale, della vendita all’incanto, di una comparazione con qualcosa che è distante da sé. Tutto ciò deve partire da una differente consapevolezza, chi ha gli occhi bassi sul proprio dramma non riuscirà mai a guardarsi attorno [2].
[1] Cassano F., Il Pensiero Meridiano, Laterza, 1999.
[2] Cassano F., Il Pensiero Meridiano, Laterza, 1999